Quando si parla di politica professionale ci si riferisce a quell’insieme di azioni volte alla promozione e alla valorizzazione della nostra professione senza dimenticarci, naturalmente, della tutela dell’utenza. Nonostante i buoni dati sull’affluenza alle urne in Lombardia (certamente facilitati anche dal comodissimo voto online, che richiede uno sforzo democratico di poco superiore a quello di un riflesso condizionato), quello politico-professionale rimane un argomento ancora poco considerato dai colleghi e oggetto degli stessi attacchi della politica tout court: è una lobby, fa i propri interessi e via dicendo. Personalmente credo che la politica tutta abbia da sempre rappresentato il capro espiatorio di ogni malessere, insoddisfazione e frustrazione personale. L’idea che se il risultato non sia miracoloso e immediatamente tangibile allora non serva a nulla è ancora molto diffusa, perfino tra noi laureati. A onore del vero bisogna ammettere che la politica, anche quella professionale (la vicenda di via della Stamperia, ad esempio, ce la ricordiamo tutti), ci ha sempre messo del proprio nel diffondere disaffezione e scoramento.

Eppure, dal canto mio, ho sempre mostrato interesse verso la politica professionale: mi piace l’idea della partecipazione (anche limitata al proprio piccolo, ma non ininfluente, pezzettino) in luogo della lamentela, del coinvolgimento attivo invece del disimpegno. Ma ancora troppo spesso, a mio avviso, le battaglie politico-professionali vengono intese in modo particolare, prescindendo da alcuni aspetti che ritengo fondamentali.
Il primo fa riferimento al fatto che non si può fare politica professionale senza fare politica. Sia perché la politica professionale pone questioni che, in buona parte, è la politica stessa a dover risolvere. Si pensi alla battaglia per l’aumento del comparto psicologi nel SSN: come può la nostra categoria ottenere qualcosa senza fare pressioni sulla politica? E poi, in seconda battuta, anche perché la politica professionale, quando portata avanti (anche) per ideali, chiama in causa un’idea di società che si vuole provare a realizzare: insistere per lo psicologo a scuola o per quello delle cure primarie non significa solo aprire nuovi posti di lavoro per i colleghi ma ci dice implicitamente che 1) crediamo nella prevenzione e nell’intercettazione precoce di una domanda d’aiuto che dev’essere accessibile a tutti 2) vogliamo che lo Stato garantisca a ogni cittadino un’assistenza di base di tipo psicologico (pubblica e gratuita). Insomma, una buona politica professionale non può essere solo pragmatica ma dev’essere anche valoriale. Ecco allora che la professione si deve dotare in primis di una coscienza politica, aperta al dialogo con tutte le parti ma anche combattiva e salda nei propri principi. Se la politica professionale è fondata su un’idea di società (e non su un mero interesse di categoria che, pur comprensibilmente, deve tutelare) significa che fare politica professionale vuol dire davvero fare politica nel senso più nobile del termine: ovvero impegnarsi a migliorare la vita di tutti, non ad affermare un’élite o una corporazione a discapito di un’altra.
Che cosa significa, concretamente, tutto ciò?
Vuol dire innanzi tutto evitare che le battaglie di politica professionale diventino sterile difesa della propria identità che sentiamo minacciata. Di solito, peraltro, combattiamo i più deboli (come i counselor) e non lo strapotere di altre lobby (ad esempio i medici). Non voglio dire che in alcuni casi queste controversie non sia opportuno portarle avanti: personalmente condivido la necessità di mettere un argine all’appropinquarsi di professioni (o pseudo-professioni) che, senza adeguata formazione e preparazione personale, mirano a svolgere attività in parte sovrapponibili a quella dello psicologo. Che non è immune da errori, personali e professionali, ma che ha seguito un iter abbastanza annoso tale da legittimarlo pienamente nel suo ruolo. Mi riferisco però alla necessità di rendere la politica professionale sempre più politica.
In che modo?
Beh, se la politica professionale crede in un’idea di società dovrebbe allora tendere la mano anche a quelle professionalità “amiche” delle quali abbiamo tutti parimenti bisogno. Se non è la difesa particolare a unirci ma l’idea di società, in fondo combattiamo (almeno in parte) la stessa battaglia. Penso, ad esempio, agli amici educatori da sempre più impegnati di noi in scioperi e battaglie per la dignità del lavoro (forse anche perché, nel loro caso, la situazione retributivo-contrattuale ha prospettive ben più nefaste). Una simile visione, allora, ha l’obiettivo di raccogliere l’anima politica presente nel lavoro dello psicologo. Che anche quando è impegnato con l’utenza, in fondo, fa sempre politica: non trasforma cioè rabbia e sofferenza individuale in apatica accettazione dello status quo ma aiuta il paziente a incanalarle, a portarle nella relazione e nel mondo, a renderle rivolta che non distrugga ma costruisca un futuro migliore per sé e per tutti noi.
Ma senza voler aprire così tanto il “campo largo”, le divisioni sono anche interne alla categoria. Si pensi alle discordie tra psicoterapeuti e psicologi non psicoterapeuti, ad esempio. Ma anche al variegato mondo delle scuole di psicoterapia che, allorché presentarsi alla cittadinanza come un’armonica “non-integrazione” tra differenti visioni del mondo e dell’uomo, finisce spesso per tradursi in una miriade di appartenenze parrocchiali (su questo noi del Gruppo Milanese di Supervisioni stiamo provando, ormai da alcuni anni, a fare la nostra parte per contribuire a diffondere un’idea di psicoterapia più ecumenica e umanistica).
E poi va detto anche questo: mancano certamente rivendicazioni politiche più ampie, unitarie. Se in qualità di liberi-professionisti abbiamo diritto allo sciopero oppure solo a una legittima astensione dal lavoro che le fattispecie di contrattini-collaborazioni che solitamente firmiamo ci consentono, è domanda alla quale non saprei rispondere (e che rivolgerei volentieri a un consulente del lavoro). Ma comunque il succo della questione non cambia: qualcuno, infatti, ha memoria di manifestazioni organizzate dalla categoria, con ampia partecipazione, piattaforme chiare, rivendicazioni politiche concrete e mirate? Sono psicologo da ormai più di 12 anni e, personalmente, non ne ricordo alcuna.
Insomma, la politica professionale è un nobile servizio alla categoria e alla cittadinanza. Sta a chi occupa gli scranni del potere fare la propria parte per onorarla nel modo migliore. Ma sta anche a tutti noi colleghi vigilare, proporre e militare a più livelli fuori e dentro le istituzioni. Avendo sempre a mente un’idea di categoria…ma anche un’idea di società: perché una politica senza ideali, in fondo, si chiama opportunismo.
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